CAPITOLO 1 - L’infanzia, dal 1951 al 1956

La priLma infanzia a Palestrina

Sono nato il 25 ottobre 1951 a Palestrina, antica cittadella del VII sec. a.C. alle porte di Roma, che ha il suo epicentro sul monte Ginestro e nell’antica Acropoli e Tempio della Dea Fortuna, da Salvatori Mario nato a Palestrina il 30 ottobre1921 e morto il 12 giugno 2010, impiegato all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, e da Co

ccia Erminia, nata a Palestrina il 10 agosto 1926 e morta il 1° aprile 2012, maestra di scuola elementare. I miei nonni paterni, Romolo Salvatori, nato a Palestrina il 19 agosto 1887 in via Corso Pierluigi 37 (figlio di Luigi Salvatori negoziante e caldararo e di Fernandez Emma di Palestrina sposati il 10 giug

no 1882), sposato con Mammetti Pulcheria Elvira, nata il 2 gennaio 1889, che viveva e nata a Roma in via Urbana 123 (figlia di Mammetti  Agapito, che faceva il cuoco

e di Cilia Celeste che e vivevano a Roma in via Panisperna 127) il 30 dicembre 1914, ebbero nove figli, di cui due morti subito dopo la nascita: mio padre Mario, Teresa, Dante, Giannetta, Giuseppe e Claudio. Romolo Salvatori seguì le orme del padre e di mio bisnonno Luigi Salvatori (1855-1919) nella loro professione di negoziante e caldararo e del mio trisnonno Pasquale Salvatori (Palestrina 1810 – 15 febbr. 1891), anch’esso caldararo. Calderaio è il termine italiano dell'artigiano addetto alla lavorazione del rame, nel dialetto palestrinese chiamato comunemente "caldararo"; è un termine latino derivato da calderarius, che significa: "facitore di caldaie e d'altri vasi simili di rame”. I miei trisnonni di parte paterna si chiamavano Pasquale Salvatori e Rosa Sbardella; quelli di parte materna si chiamavano Davide Fernandez e Vincenza Sebastianelli. Mia nonna materna, Maria Lulli, nata in via di Capo Croce 9 a Palestrina nel 1901 da Costantino Lulli e da Lombardi Colomba, sposata con mio nonno Luigi Coccia, nato a Palestrina in via dello Sprecato il 15 settembre 1900, morto in giovane età per una polmonite dovuta ad una bevuta di acqua fresca durante la notte, ebbe due figlie: Erminia, mia madre, e Gianna, sposata con Mario Fornari, anche lui morto in giovane età nel 1974, per una malattia allora incurabile e poco conosciuta, l’epatite virale. Tutti questi dati genealogici sono stati ricercati da mio figlio Damiano.

Nella mia famiglia ci sono stati artisti e pittori che hanno influenzato e formato la mia vita artistica: mio nonno paterno Romolo, il bisnonno Luigi e il trisnonno Pasquale erano artigiani nell’arte del rame; mio zio Mario Fornari, di professione pittore edile, era anche un artista pittore di quadri; mio zio, Marcello Salvatori, cugino carnale di mio padre e mio zio Armando Stellani sono stati pittori dell’area prenestina, nel periodo tra gli anni cinquanta e ottanta, sulla scia delle esperienza artistica Romana tra avanguardia e sperimentazione dei nuovi linguaggi.

Quello della mia giovinezza era il periodo di rinascita e di ricostruzione dell’Italia nell’immediato dopoguerra, dopo il periodo travagliato del Fascismo, movimento politico nato in Italia e fondato da Mussolini il 28 ottobre del 1922, subito dopo la marcia su Roma. Il fascismo  in realtà non è un fenomeno particolarmente lontano, eppure non è facile per un italiano di oggi immaginare come si viveva sotto una dittatura. Dopo la marcia su Roma , lo stato fascista  venne velocemente costruito arrivando ad abolire le libertà costituzionali, e a plasmare generazioni, di uomini e donne, condizionando pesantemente le abitudini, la cultura ed il futuro politico degli italiani. I miei avevano vissuto in pieno a Palestrina tale periodo, che sotto falsi aspetti poteva anche avere dei lati positivi. Mia madre infatti mi raccontava che le piaceva molto partecipare alle attività della Gioventù italiana del Littorio fondata nel 1937, che andava a sostituire l’opera nazionale Balilla per l'assistenza e per l'educazione fisica e morale della gioventù. Era un'organizzazione giovanile del Regno d'Italia, istituita come ente morale durante il ventennio fascista e sottoposta all'alta vigilanza del Capo del Governo alle dipendenze del Ministero dell'Educazione Nazionale (r. decr. 14 settembre 1929). Rigidamente centralizzata, l'Operazione Nazionale Balilla fu sin dalla sua fondazione concepita dai fascisti come uno strumento di penetrazione delle istituzioni nelle scuole: a essa venne affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi; presidi e insegnanti erano tenuti ad agevolare le strutture scolastiche alle iniziative dell'ONB e a invitare gli alunni di tutte le età ad aderirvi. Ma queste non servivano altro che a controllare e a manipolare le libere idee degli uomini, tanto che ben presto si giunse a promulgare nel 1938-1939 la più abietta delle leggi, quella razziale, basate sul principio di discriminazione razziale che sfociò nel più atroce sterminio del genere umano, quello degli ebrei, e l’entrata in guerra accanto alla Germania di Adolf Hitler e alla sua mente nazista criminale. 

Dunque, quello degli anni cinquanta era un periodo felice nella vita degli italiani che uscivano dalla pazzia della guerra, tra storie di dolori e avversità, avendo nella memoria ancora vivo il rumore dei bombardamenti, la borsa nera, il coprifuoco e gli oscuramenti (il divieto di accendere le luci nelle case per non essere bersaglio di bombardamenti), lo sfollamento dai paesi occupati dai nazisti per nascondersi tra le montagne e o nei rifugi dei santuari lontani dalle città dai paesi per sfuggire ai bombardamenti degli alleati. I miei mi raccontarono che si rifugiarono nel Santuario della Mentorella, uno dei più antichi Santuari Mariani d’Italia e d’Europa, dedicato alla Madre delle Grazie, sul Monte Guadagnolo, per raggiungere il quale occorreva percorrere una ventina di chilometri a piedi, tra le montagne, con la paura, il freddo e la mancanza di cibo. Palestrina aveva subìto nel novembre del 1943 e poi il 22 gennaio 1944 pesantissimi bombardamenti da parte degli anglo-americani, con numerosi morti tra i civili. Il 1° giugno 1944 un secondo bombardamento aveva distrutto il centro abitato per la sua quasi totalità. La nostra casa riportava sulle murature esterne i segni delle schegge dei bombardamenti e delle mitragliatrici, che solo recentemente sono stati riparati. Ricordo che nel nostro giardino ritrovai, da piccolo, molte schegge di bombe. La città di Palestrina venne liberata dagli alleati il 4 giugno del 1944. Molte altre cittadine del Lazio furono bombardate dagli alleati per distruggere gli avamposti Tedeschi. Tra queste il terrificante bombardamento di Velletri del 22 gennaio del 1944, che insieme ad altri quattro successivi inflisse alla città un colpo mortale. Così anche tutti i castelli romani, come Genzano, Ariccia, Rocca di Papa, Nemi, Rocca Priora, Lanuvio. Frascati, Marino, dove i bombardamenti hanno raso al suolo Chiese, Campanili e palazzi pubblici e privati. Le bombe caddero anche su moltissimi altri paesi del Lazio, in particolare a Frosinone e nella sua provincia. Tra i maggiori, si ricorda il bombardamento di Cassino nel mese di maggio del 1944. A Cassino era situato l’avamposto della difesa tedesca e l'abbazia di Montecassino, che sovrastava la valle permetteva ai difensori di controllare i movimenti delle truppe nemiche. La valle era considerata l'unica via d'accesso agevole per le colonne di uomini e mezzi alleati in avanzata verso Roma. La battaglia fu caratterizzata anche dal bombardamento aereo alleato che distrusse la secolare abbazia, atto che procurò non poche critiche agli anglo-statunitensi. Dai racconti di mia madre, tutti gli sfollati alla Mentorella, durante la notte vedevano da lontano i bagliori dei bombardamenti su Palestrina. I racconti sui bombardamenti erano la cosa che maggiormente mi aveva colpito, tanto che da bambino avevo un sogno ricorrente, quasi un incubo. Alcuni miei disegni da bambino riportavano le immagini che si erano fissate nella mia mente. Sognavo di trovarmi in un grandissimo ambiente, con una grandissima parete vetrata, era di notte. Al di la della vetrata si vedevano arei bombardieri che volavano in cielo lasciando cadere le loro bombe. Così i miei disegni ricordavano l’incubo:

Solo, di fronte il buio dietro la grande vetrata,

poi fasci di luce che si incrociano in cielo;

e il continuo rombo

di grossi bombardieri che minacciosi volano

 in formazione sfalsata pronti a lanciare le loro bombe micidiali.

Poi grida, scoppi e lampi.

Un sussulto e mi sveglio d’improvviso.

Attraverso le mie ricerche ho ritrovato una poesia di Luigi Fusano, nome a me noto nel periodo in cui frequentavo Palestrina. Nato nel 1937 a Palestrina, abitava presso il quartiere “il Borgo”, e visse in prima persona la guerra e tutte le sue nefandezze. Egli stesso fu vittima di un tragico incidente, che si narrava spesso nella mia famiglia, affinché fosse di monito per noi bambini a non raccogliere nella per terra; spesso infatti trovavamo schegge di residui bellici a filo di terra. A questo Luigi gli era scoppiata tra le mani, nel terreno di sua proprietà, un residuato bellico. Proprio dai ricordi della guerra trae ispirazione un suo primo componimento, scritto in occasione del sessantesimo anniversario del bombardamento della cittàIn questa poesia dialettale l’autore Fusano rievoca il triste giorno del 1° giugno 1944 quando le forze alleate, stante anche ormai la non presenza dell’occupante tedesco, bombardarono la città di Palestrina lasciando sul terreno soltanto vittime civili e la distruzione di parte della città stessa. Questa era la poesia, 1° Giugno '44:

Primo giugno dello quarantaquattro

se rennuollà lo cèl a Palestrina

l'apparicchi 'riviero quattr'a quattro

vettènno bbomme sù pè lla Cortina.

La Pùora gende cercheva reparo

pè quà candina, pure pè le rùtti

sopr'à una ce ne caschiero 'mbaro

cinquantadù cristiani, muorzero tutti.

Steven' alle ròtte de Cianvarano

èreno viecchi, giuveni, bardassi

nun pùozzero scappà tando londano

la carne fù mmischiata co 'lli sassi.

Ero zico me ll'anno reccondato

pàremo ce teneva quà parende

quando che lla sotto ànno scavato

de tanta gente 'ngi stèva più gnènde.

Lo destino vùozzi èsse fatale

fùreno l'urdime bbomm'a cascà

può quà giorno appresso, meno male

li 'Mericani 'vetèmmo rivà.

Da chella dì mò d'anni, sò settanda

llà ssopre c'ènno fatto 'na cappella

pè recordà alla gente tutta quanda

"senza guère, la vita sarìa bella".

Poesia di Luigi

Tra la fine del 1944 e l'aprile del 1945, quando anche l'Italia venne liberata, la Germania fu invasa a ovest dagli Angloamericani e a est dai Sovietici. La battaglia di Berlino. Dal 19 aprile al 2 maggio, il suicidio di Hitler il 30 aprile e l’armistizio di Reims del 7  posero fine alla guerra in Europa. Il 2 giugno del 1946, in seguito al referendum istituzionale per determinare la forma di governo dopo la fine della seconda guerra mondiale, nacque la Repubblica Italiana. Per la prima volta in Italia partecipavano anche le donne ad una consultazione politica nazionale. I risultati furono proclamati dalla Corte di Cassazione  il 10 giugno 1946: 12.717.923 cittadini favorevoli alla Repubblica  e 10.719.284 cittadini favorevoli alla Monarchia. Nasceva così la Repubblica Italiana; Alcide De Gasperi assunse le funzioni di capo provvisorio dello Stato. Il 13 giugno 1946 l’ex Re Umberto II lasciava volontariamente il paese. L’Italia festeggiava per la seconda volta. Era la fine di un incubo. Ricordo i miei genitori che mi raccontavano con entusiasmo la festa degli italiani per la Vittoria per la Repubblica, contenti di aver contribuito anche loro con il voto del Referendum. Sei anni dalla fine della seconda guerra mondiale, cinque anni dopo la nascita della Repubblica, nascevo io, nella casa materna in via Eliano al civico 9. Nella foto è riportata la finestra della stanza nella quale sono nato. Fino ai primi anni 50 del secolo scorso nella quasi totalità dei paesi si nasceva in casaNell’imminenza del travaglio le donne di casa, e cioè mia nonna e mia zia Gianna, entrarono in azione riscaldando pentole d’acqua e preparando le pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma in travaglio. Mio padre corse a chiamare la levatrice, che sarebbe la donna esperta e che si era formata dopo una lunga pratica di parti, Mi raccontavano che quella della mia nascita era una brutta notte di pioggia e di gran vento. Mio padre andò velocemente a chiamare la levatrice (così si chiamavano le donne che assistevano le partorienti, corrispondenti alle attuali ostetriche), con la sua Lambretta. La Lambretta era uno scooter italiano  prodotto dall’'industria Innocenti  di Milano, nel quartiere Lambrate, a partire dal1947. Il nome "Lambretta" derivava dal fiume Lambro, che scorre nella zona in cui sorgevano proprio gli stabilimenti di produzione. Mio padre era uno dei primissimi ragazzi di Palestrina a possedere una lambretta, fin dai tempi del fidanzamento con mia madre. 

La levatrice, quando arrivò mio padre a cercarla, era già stata allertata, pronta per qualsiasi ora del giorno o della notte. Non sempre il parto era facile, anzi. Quando si complicava bisognava correre a chiamare anche il medico. Quest’ultimo veniva interpellato solo in casi estremi, quando la partoriente era in gravi condizioni. Ma non ce ne fu bisogno. In piena notte, in una notte di pioggia e tempesta, nascevo io.

Era l’inizio degli anni cinquanta, appena qualche anno dalla fine della seconda guerra mondiale. Erano tempi, quelli degli inizi degli anni cinquanta, in cui gli italiani vivevano ancora nella reale paura di una prossima imminente terza guerra mondiale tra le due superpotenze, gli Stati Uniti d'America  e l’Unione Sovietica, che si sarebbe potuta probabilmente concludere con la

distruzione di gran parte della vita  sulla Terra e l'estinzione  della  specie umana; c’è una bellissima commedia di Eduardo De Filippo intitolata: “La paura numero 1”, che parla proprio di questa paura degli italiani nell’immediato dopoguerra; uno dei personaggi  della commedia organizza un finto giornale radio  nel quale si annuncia lo scoppio della tanto paventata guerra.

Nella realtà questa paventata terza guerra mondiale generò solamente una guerra fredda, che comunque avrebbe portato alla costruzione del muro di Berlino, e una guerra sul primato della conquista dello spazio. Per quasi 20 anni le imprese spaziali furono infatti il nuovo teatro della Guerra Fredda, una gara tecnologica senza risparmio di colpi cominciata ufficialmente nel 1957 con il primo satellite artificiale (lo Sputnik 1). Neppure un mese più tardi l'Urss lanciò lo Sputnik 2: fu un altro primato perché a bordo c'era un essere vivente, una cagnetta. Questo evento lo ricordo perfettamente, perché i grandi ne parlavano e noi bambini rivolgevamo gli sguardi vero le stelle e la luna e sognavamo; quei cieli stellati a quel tempo davano veramente il senso dell’infinito grazie allo splendore e la luce che emettevano gli astri, soprattutto la via Lattea, che, come un fascio luminoso, attraversava tutta la cupola del firmamento visibile. Oggi se chiedi a un bambino che cosa è la via lattea, non lo sa perché non si vede più, soprattutto in città, ma ormai anche nei paesi di montagna è poco riconoscibile. Nel 1961 saranno gli Americani a lanciare una capsula che orbitò intorno alla terra, con a bordo uno scimpanzé.

Per me, allora, il tempo della guerra era un tempo lontanissimo che non mi apparteneva, cioè non vissuto personalmente, anche se in realtà erano passati solo sei anni dalla sua fine. Tutti gli italiani volevano dimenticare quella brutta esperienza; tutti miravano a rinnovare le proprie case, a buttarsi dietro le spalle i ricordi e con essi anche i vecchi oggetti e le cose vissute. L’unica cosa che contava era: ricostruire e modernizzare la società, ristrutturare le case fino ad allora prive dei minimi requisiti di igiene, costruire strade e autostrade, acquedotti, fogne e servizi. La mia casa nativa di Palestrina, come quelle di quasi tutti i paesi, aveva il bagno all’esterno della casa, priva di impianti di riscaldamento, con l’acqua razionata.

Di quegli anni i miei ricordi sono legati solamente alle fotografie in bianco e nero, che erano moltissime perché mio padre era un amante delle foto, le scattava e le stampava direttamente lui n casa con i suoi strumenti di sviluppo.


La ricostruzione nel dopoguerra e il trasferimento a Roma nel 1953

Nel 1953, all’età di due anni, i miei genitori si trasferiscono a Roma, nel quartiere Africano di viale Etiopia, tra viale Libia e via Tripoli, e precisamente in via Tripolitania, in affitto nelle case dell’Istituto INA CASA. Nel dopoguerra Roma aveva bisogno di case. La popolazione, con centomila abitanti nel 1870 e un milione di anime nel 1930, era aumentata della metà, per superare poi i due milioni di residenti nel 1960. La storia della ricostruzione italiana segna una forte spinta nel settore edilizio, che inizia appena cessata la guerra e “

raggiunge le punte massime nel 1955, quando si inizia rapidamente la crisi delle abitazioni, che nei primi dieci anni ha formato il nerbo più poderoso, non solo della ricostruzione, ma del dilagare di nuove costruzioni” (Giuseppe SAMONA’, L’Urbanistica e l’avvenire delle città, Ed. U Laterza, seconda edizione, 1971, C.L. 200255-8, pag. 212 e s.s). Ma il processo di ricostruzione non fu organizzato con appropriati strumenti di pianificazione, come un corretto piano regolatore coordinato con la programmazione e la coordinazione con gli interventi economici. Si sarebbe dovuto dare maggiore impulso all’edilizia sovvenzionata mentre era stata l’edilizia privata ad avere il sopravvento. Come rileva Giuseppe Samonà, Ingegnere e professore ordinario all’Università di Venezia facoltà di Architettura e rappresentante dell’Istituto Nazionale dell’Urbanistica (INU), l’edilizia sovvenzionata fu dissociata dai piani urbanistici che avrebbero dovuto inquadrane l’attività con le necessarie localizzazioni in rapporto alle esigenze della città. Non furono elaborati, come sottolinea il Samonà, schemi di previsione economica, dettando i criteri operativi all’attività edilizia e mettendo in moto fin da subito l’edilizia sovvenzionata, la quale avrebbe messo un freno all’iniziativa privata. Lo Stato non si assunse direttamente un impegno eccezionale per la ricostruzione, promuovendo leggi speciali per ogni singolo caso o conferendo ai comuni eccezionali poteri d’esproprio obbligatorio per assicurare il possesso temporaneo di tutte le aree da riedificare, rilottizzando le proprietà e ridistribuendole in volume ai proprietari delle aree. Così si è assistiti alla caotica avventura di urbanizzazioni trasformando il territorio senza un criterio determinato. Pochi sono gli esempi di urbanistica programmata. Tra questi ci fu Il quartiere dell’Ina Casa, progettato da  Mario Ridolfi  in viale Etiopia, dove andammo proprio noi a vivere con la mia famiglia nel 1953. Il quartiere era stato considerato dall’Architetto Paolo Portoghesi “il capolavoro dell’architettura italiana nel dopoguerra”: otto case torre di nove o dieci piani ciascuno. Con le torri di viale Etiopia, il neorealismo architettonico raggiunse a Roma la sua forma di espressione più compiuta: così lo definisce Piero Ostile Rossi, professore ordinario di Composizione Architettonica alla Sapienza Universitaria di Roma negli anni novanta. L’organizzazione planimetrica introduce una soluzione alternativa rispetto al modello di crescita della città intensiva di iniziativa privata. Il progetto, redatto per l’INA, comprendeva otto edifici alti 9 o 10 piani e un nucleo di negozi e servizi collettivi. Il disegno Architettonico lasciava in evidenza la tessitura della struttura in cemento armato lasciata in vista e dai pannelli di tamponamento che costituiscono il paramento murario, con copertura a tetto con tegole alla canadese. Una tipologia completamente nuova per Roma. (Rif.  Piero Ostilio ROSSI Roma guida all’architettura moderna 1909-2011 , Ed. Laterza, 2012, ISBN 9788842099178).

I corpi scala erano caratterizzati da elementi circolari in vetrocemento che costituivano la fonte dell’illuminazione. Ogni corpo scala era dotato di due ascensori per ogni torre, che alla chiamata salivano o addirittura scendevano a comando esterno. Noi stavamo all’ultimo piano, con un terrazzo che girava tutto intorno all’abitazione. Dal terrazzo si vedevano i tetti a falde con tegole particolari che allora erano una novità, le cosiddette tegole canadesi. Questi tetti, che erano nuovi per me, abituato ai tetti con le tegole in cotto del mio paese che avevo lasciato per andare a vivere in città. Tutto quello che mi colpiva lo disegnavo e rimaneva impreso nella mia memoria, anche a distanza di anni; ho ritrovato alcuni miei disegni di seconda elementare, dove rappresentavo i tetti di case, casette e palazzi, con questi tetti a forma di trapezi con le tegole a forma di rombi geometrici. Ricordo benissimo la mia maestra che mi disse: “Luigi, ma le tegole dei tetti non sono di questa forma”, ed io risposi che quelli erano i tetti della mia prima casa di Roma.

Al piano terreno degli edifici erano gli ampi cortili verdi per la vita in comune, delimitati da recinzioni. Ho ancora qualche ricordo di quando scendevo in cortile a giocare con altri bambini, vestito da indiano nel periodo di carnevale. Le case-torri svettano e sono ben visibili oggi percorrendo la tangenziale, nei pressi della via Nomentana.

Cosa ricordo di questo periodo? Ho alcuni flash: l’esperienza dell’ascensore, il lungo terrazzo che girava intorno tutta casa, il cortile dove andavo a giocare, la mia cameretta con l’automobilina a pedali e il triciclo, una nottata di dolore insopportabile per un mal d’orecchio, la canzone Mattinata Fiorentina con le parole “È primavera, svegliatevi bambine, alle cascine…” un brano del 1941 cantato da Roberto Rabagliati e “Domenica è sempre Domenica, aprite le finestre è primavera”, con il testo di Mario Riva. Queste canzoni mi ricordano un bellissimo giorno primaverile durante le pulizie pasquali, cioè quelle pulizie a fondo che era in uso fare in prossimità della Pasqua. <Mia madre stava pulendo i vetri delle finestre, con il sole e l’aria di primavera che entrava in casa. Ricordo anche una grande nevicata a Roma: era fine gennaio e inizio febbraio del 1954, una delle nevicate storiche a Roma.

Nel 1954 in Italia si accende la TV; esattamente il 31 gennaio viene mandata in onda la prima trasmissione televisiva, per poche decine di minuti. Iniziava una nuova era. Questo apparecchio aveva costi proibitivi: circa 450.000 Lire; per l’epoca era come comprarsi una casa. Per questo si andava a vedere qualche programma serale al bar; noi andavamo in casa di un nostro vicino presso la quale si riuniva quasi tutto il condominio. Lo spettacolo che si vedeva in gruppo era “Lascia o raddoppia”, andato in onda nel 1955 e condotto da Mike Bongiorno. Nel 1956 va in onda il programma “L’amico degli animali "  con Angelo Lombardi, che può essere considerato il padre della divulgazione scientifica. Famosa la sua frase: “l’amico dei miei amici è mio amico”. Nel 1957 va in onda per la prima volta “Carosello”, e nello stesso anno esordisce Mario Riva con il “Musichiere”, con l’orchestra di Gorny Kramer e dal 1960 al 1969 “Non è mai troppo tardi”, a cura di Alberto Manzi, il maestro più amato dagli italiani, perché insegnò a leggere e a scrivere alle numerosissime persone anziane, ma non solo, analfabete. Nell'immediato dopoguerra, e all'indomani del crollo del fascismo, circa un ottavo della popolazione italiana, circa sei milioni di cittadini, non sapeva né leggere né scrivere. L'analfabetismo è stato per il nostro Paese una piaga sociale con caratteristiche particolarmente gravi soprattutto nei centri rurali del Mezzogiorno. Il governo italiano fece fronte a questa emergenza emanando, il 17 settembre del 1947, un decreto-legge che istituiva le scuole popolari. Il forte contributo al progresso culturale della nazione arrivò in quegli anni proprio dalla televisione di Stato, che negli anni Sessanta affrontò il problema dell'alfabetizzazione attraverso il piccolo schermo. Anche mia madre contribuì all’alfabetizzazione della povera gente; si era da poco diplomata e aveva iniziato il lavoro di insegnante di scuola elementare, Ricordo che mio padre era contrario a che mi madre lavorasse; in quell’epoca le donne difficilmente lavoravano; i mariti volevano che le donne dovessero interessarsi solamente della famiglia. Tra il XIX e il XX secolo si era assistito ad una lenta evoluzione del lavoro femminile, ma negli anni cinquanta in Italia, ma anche in America, vi era ancora una netta distinzione di genere nel mondo del lavoro: la divisione sessuale dei ruoli era molto accentuata e le attività femminili beneficiavano di un minore riconoscimento sociale. Era normalità che la donna si occupasse in prevalenza di mansioni familiari e che quindi lavorasse in casa, svolgendo contemporaneamente varie attività e senza percepire un reddito. L’uomo invece era dedito alle mansioni produttiveera così impegnato in ruoli economicamente e socialmente riconosciuti. A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale le donne italiane avevano cominciato a battersi per i propri diritti e la propria libertà, iniziando così ad ottenere i loro primi riconoscimenti.  Il 2 giugno 1946  ottennero il diritto al voto  e nel 1948,  con l’entrata in vigore della Costituzione Italianavengono sanciti alcuni principi fondamentali in tema di parità di diritti tra uomo e donna. Queste nuove concessioni non erano viste positivamente da molti, e per questo furono per lungo tempo disattese. Ricordo una forte litigata di mio padre con mia madre, sostenuta solamente da mia nonna. Ho ancora viva in me l’immagine di mio padre che stava buttano tutti i libri di mia madre e lei che di difendeva e li riprendeva con forte determinazione. Fu così che mia madre vinse quella battaglia e cominciò a lavorare come maestra. Iniziò l’insegnamento andando direttamente nelle baracche romane, tra la povera gente. Era una nuova esperienza di pedagogia popolare realizzata in Italia nel secondo dopoguerra, sulla esperienza della vicenda della “Scuola 725” di Roma, fondata da don Roberto Sardelli, parroco di San Policarpo, tra le baracche dell’Acquedotto Felice. L’obiettivo di Don Roberto Sardelli consisteva nel riscoprire e far conoscere una nuova proposta per riflettere sul valore dell’educazione come strumento di sviluppo sociale, a partire dal ruolo centrale che può e deve svolgere un’istituzione come la scuola, cercando spazi in cui è possibile parlare, ascoltare, discutere, pensare e apprendere in forma critica e non effimera. Don Sardelli che non rimase indifferente di fronte ai disagi e all’ingiustizia sociale; sull’esempio di don Milani, fondò proprio in quelle baracche la scuola per aiutare i ragazzi a istruirsi e a emanciparsi, offrendo loro un’occasione di riscatto e una nuova consapevolezza della propria dignità. (Rif. Si vedano M. I. Macioti, K. Scannavini, Il valore del sapere. L’esperienza della Scuola 725, Roma, Provincia di Roma, 2011; R. Sardelli, Vita di Borgata. Storia di una nuova umanità tra le baracche dell’Acquedotto Felice a Roma)

Un giorno mia madre mi portò con sé in una di queste baracche, dove insegnava ai bimbi che non andavano a scuola: ho ancora vivo il ricordo delle immagini degli interni della baracca e della gentilezza dei suoi residenti che mi offrirono i loro biscottini per merenda; non esistevano porte interne, ma solo tende per dividere gli spazi abitativi. Gli spazi abitativi erano conseguenziali; si entrava in una zona dove si svolgeva la vita quotidiana, poi attraverso una tenda si entrava ella zona dove si mangiava, e di seguito dietro un’altra tenda si entrava nell’ambiente dove si dormiva tutti insieme. Mentre mia madre faceva lezione, io mi divertivo a disegnare sui fogli di carta straccia che mi metteva a disposizione la famiglia che ci ospitava. Poi, con un certo orgoglio, mia madre li faceva vedere ai bambini e alla loro famiglia, che si complimentavano con me. Evidentemente, già da questi primi disegni si intravedevano le mie qualità artistiche.

Nell’autunno-inverno del 1956, all’età di cinque anni, i miei acquistano una casa in proprietà nel quartiere Appio Tuscolano, in via Genzano al civico 144. Di quel periodo ricordo una delle più grandi nevicate a Roma: quella del 1956; tra febbraio e marzo nevicò a Roma per quattro giorni consecutivi; secondo gli storici tanta neve così non si era mai vista a Roma; secondo la mia esperienza vissuta dopo questa data l’unica grande nevicata fu quella del 1982. Allora le macchine in città si contavano sulle dita; spesso si andava a giocare a pallone sulla strada e per porta si usavano i pali di legno della luce, quelli a forma di v rovesciata che stavano ancora al centro della strada.

La periferia romana e il fenomeno delle baracche

La nuova casa si trovava nella allora periferia romana, in prossimità di quelli che diventeranno negli anni successivi il Parco Dell’Appia Antica e Il Parco delle Tombe Latine. Ma all’epoca la via Genzano si trovava nelle immediate vicinanze delle baracche romane spontaneamente sorte.

Le baracche spontanee erano un insieme di agglomerati di costruzioni abusive, abitate da romani e non, sorte alla periferia della città o nell'Agro Romano. I borghetti consistevano in gruppi di casette, capanne o baracche, costruite parte in lamiera e parte in muratura. Si trovavano alla cintura estrema della città ma si incontravano anche nel centro di quartieri nuovi. Le borgate spontanee e i borghetti erano insediamenti in cui le condizioni di alloggio e di vita della popolazione erano in assenza dei minimi livelli di igiene e di abitabilità, senza i servizi essenziali quali acqua corrente, allacci fognari ed energia elettrica.  

Le baraccopoli nella città di Roma sono una storia antica. Già nel 1871, dopo la proclamazione di Roma capitale d’Italia, la costruzione di baracche nella periferia di Roma, al Mandrione e a Porta Portese, rappresentò il primo segnale dell’afflusso incontrollato di migranti che in conseguenza dell’attrattiva della capitale. Ma fu soprattutto nella Roma del secondo dopoguerra che l’incremento demografico subì un’accelerazione notevole: alla crescita naturale si aggiunse infatti un massiccio afflusso di immigrati profughi approdati nella Capitale per cercare rifugio. Si registrò la crescita incontrollata di una grande quantità di abitazioni spontanee ed abusive all’interno della città. Nel 1957, circa quindicimila famiglie abitavano in baracche, catapecchie e grotte. Le abitazioni erano concentrate in circa 50 baraccopoli per lo più localizzate nel settore est di Roma, tra la via Nomentana e la via Appia e gli abitanti provenivano dalla provincia del Lazio e dell’Abruzzo, oltre che del sud Italia. Il noto sociologo Ferrarotti scrive: «

A Roma le baracche nascono in una notte a fungaia. Crescono a ridosso di antichi acquedotti dal nome glorioso, nelle zone dello sviluppo edilizio a macchia d’olio fra cantiere e cantiere, su scampoli di terreno nel punto di intersezione delle strade periferiche, lungo i bordi affossati della ferrovia. I materiali per costruirle sono rimediati sul posto: lamiere dei cantieri vicini, assi, tegole scompagnate, spezzoni di rete metallica, tavole di eternit, cassette per spedire la frutta. Nel filo spinato che difende l’ingresso dai vicini si può leggere la disperazione di chi sta a galla solo con una concentrazione estrema delle minime risorse disponibili ». Secondo i dati Istat, tra gli anni cinquanta e sessanta, le famiglie che vivevano a Roma nelle baracche erano 13.684. “Baraccati” e senza casa iniziavano le prime azioni di protesta riuscendo ad aggregare attorno alla loro lotta il movimento dei lavoratori, i sindacati, i partiti. “La protesta civile fu lo strumento con cui i “baraccati” conquistarono gradualmente il ruolo di controparte nella formazione delle politiche per la casa ottenendo dal Parlamento una norma speciale (articolo 68 della Legge n. 865 del 1971) e costringendo l’Amministrazione comunale ad adottare provvedimenti di emergenza ”. (Cit. Franco Ferrarotti, Roma da capitale a Periferia, Laterza 1970, p.93).

Gli agglomerati nella zona di via Genzano erano quelli del Mandrione, dell’Arco di Travertino, del Borghetto Latino, dell’Acquedotto Felice e di Tor Fiscale. Le baracche di Porta Maggiore fino al Mandrione erano nate dopo il bombardamento di San Lorenzo, costruite tra gli archi degli antichi acquedotti Claudio e Felice. L’acqua era fornita dall’antico Acquedotto Felice ancora in funzione e il riscaldamento era assicurato naturalmente dalle spesse volte degli archi e dalle murature che accumulavano durante il giorno il calore sufficiente per riscaldare l’intera notte. Il cibo era prodotto dalla coltivazione ad orti del circostante terreno. Le persone vivano dentro le baracche ricavate sotto gli archi chiusi con materiali di tutti. Le condizioni igieniche erano terribili, i bambini giocavano sulla terra fangosa. Ai tempi in cui lavorerò come Architetto al Municipio IX, intorno agli anni ottanta e novanta, la situazione delle baracche tra l’Acquedotto Felice e il Mandrione ancora era la stessa di quella di quaranta anni prima, anzi peggiorata perché nel frattempo tutte le zone erano interessate da fenomeni di discariche abusive. La Via Genzano sorgeva inoltre nelle immediate vicinanze del vecchio Motovelodromo Appio, conosciuto anche come Velodromo o Motovelodromo dei Cessati Spiriti: era un impianto sportivo oggi non più esistente che sorgeva nel Quartiere Tuscolano, lungo Via Appia Nuova all'altezza di Largo dei Colli Albani. “L'origine di questa struttura risale al 1910, all'epoca molto distante dai limiti dell'abitato consolidato di Roma che usciva ancora timidamente oltre Porta San Giovanni. Il motovelodromo era caratterizzato da un campo da gioco circondato da una pista sopraelevata di 400 metri che poteva ospitare gare tra biciclette e motociclette. Sotto la tribuna erano presenti anche una serie di ambienti adibiti principalmente a spogliatoi e uffici ” (Cifr. 

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Nel 1926 furono effettuati dei restauri che trasformarono l'impianto e permisero alla struttura di ospitare nei suoi spalti circa 10mila spettatori.

Quando nel 1927 venne fondata l'A.S. Roma dalla fusione di una serie di squadre di calcio romane, il primo stadio dove la compagine giallorossa disputò le sue prime partite di calcio fu proprio il Motovelodromo Appio, che qui disputò le gare casalinghe della stagione 1927-1928.

Quando andai ad abitare nella nuova casa di via Genzano, nel 1956, il velodromo era in fase di dismissione. L’interno dello stadio veniva usato come area per i circhi equestri. Una sera di un freddo giorno invernale, mio padre mi portò al Circo, era il circo Orfei. L’ingresso al Velodromo era situato in via Appia Nuova. Entrando, dalla parte destra si intravedeva la curva della pista del velodromo e mi colpì, quasi come una forma di paura, la fortissima pendenza della pista. Nel tratto di rettilineo la sezione trasversale della superficie della pista è quasi orizzontale, ma in curva deve essere notevolmente inclinata per consentire l’equilibrio alle biciclette marcianti a sensibile velocità, raggiungendo i 45 gradi di pendenza, permettendo quindi al ciclista in curva di piegarsi verso l'interno. Ebbene, la forte inclinazione della pista parabolica mi aveva incusso un certo timore, come ad immaginare la pericolosità di percorrerla. Deve avermi molto colpito perché ricordo solo questo particolare, dello spettacolo del circo non ho ricordi, o solo vaghe immagini di colori e di suoni. 

Il 31 settembre del 1957 finiva così la mia età prescolare. Di questo periodo non ho trovato e non ho conservati disegni; non so, forse perché non andavo alla scuola materna. In quel tempo, andare alla scuola materna era una cosa normale. Vi andavano solo i bambini che avevano entrambi i genitori che lavoravano ed era riservato solo a pochissimi. I miei genitori lavoravano entrambi, ma io rimanevo a casa con mia nonna Maria, che per me fu una seconda mamma. 

Poi arrivò il primo ottobre, era la classica data di inizio della prima elementare in tutte le scuole italiane.




CAPITOLO 2: Il Fervore artistico Romano e di Palestrina nella formazione del piccolo Salvatori,  dal 1957 al 1964

 1.   Alle elementari, il 1957

Il 1° ottobre 1957 è il mio primo giorno di scuola elementare, alla Giovanni Cagliero, un grande edificio scolastico degli anni quaranta. La mia classe era tutta maschile (all’epoca le classi erano tutte maschili o tutte femminili); la mia scuola elementare aveva addirittura entrate distinte per maschi e per femmine; proprio come si fa oggigiorno per i servizi igienici. L’aula era molto grande con ampie finestre e tendaggi classici a pacchetto tipici dell’epoca, ed era arredata da banchi, quelli “di una volta”, in legno, a due posti, dotati di buchi per l’incastro del calamaio per intingere i “pennini” delle nostre penne a cannuccia. Di fronte alle fila dei banchi, al centro, c’era la cattedra, rialzata su una pedana sulla quale troneggiava l’insegnate (nei primi tre anni ebbi come insegnante la maestra Giuseppina Bergamante); alla destra c’era la lavagna in ardesia; sulla parete frontale, al centro, era appeso un Crocifisso e il quadro del Presidente della Repubblica; sulla sinistra la grande carta geografica e politica dell’Italia. In alto sempre sulla parete centrale c’era un altoparlante per le comunicazioni del Direttore. Sulla porta, la campanella. A scuola, sia per l’andata che per il ritorno a casa, avevo imparato ad andare da solo. All’andata, mi fermavo a comprare la merenda, un cornetto con il “Ciocorì” (cioccolato con riso soffiato). Il Ciocorì Motta nacque nel 1957 ed è il papà di tutti gli snack. Al ritorno mi fermavo all’edicola a comprare le figurine (quelle della Panini sui giocatori di calcio, sulla storia di Garibaldi, sui dinosauri etc….). Nei giorni di pioggia si indossavano gli stivaletti di gomma colore nero e la “mantella” di plastica di colore nero o blu scuro. A scuola si portava il grembiule blu con il fiocco bianco, per i maschietti e per le femminucce grembiule bianco con il fiocco blu. Per i bambini che allora si consideravano “poveri”, c’era la mensa al piano interrato. Andare a mensa era come qualificarsi bambino povero. La punizione più funesta della scuola era quella della bacchettata sul palmo delle mani, con un listello di legno levigato; oppure lo stare dietro la lavagna, con la testa rivolta verso il muro o l’imposizione di far inginocchiare il malcapitato su uno strato di ceci o di fagioli secchi, una umiliazione patita davanti a tutta la classe. Erano questi i simboli di una scuola che praticava la punizione corporale come metodo educativo. La famiglia era solidale con la scuola e spesso era proprio questa che incitava il maestro all’uso di maniere forti, cosicché l’alunno non aveva vie di scampo e subiva, senza alternative, tutte le punizioni, nascondendole alla famiglia stessa, per non avere il resto.

 All’epoca non si faceva ancora uso della moderna e contemporanea “penna bic”. La penna era dunque a cannetta con il calamaio, con i pennini che si spuntavano, con l’inchiostro che spesso gocciolava sul quaderno tant’è che si usava la carta assorbente (oggi neanche se ne conosce l’uso). Si indossavano i grembiuli azzurri con colletto e fiocco bianco.

Non disponevamo, allora, di astucci a scomparti vari, di penne multicolori, cancellabili, colle stick, temperamatite, quaderni e quadernoni vari, foderati con copertine in plastica multicolore, scatole di pastelli e di pennarelli in tutte le tinte e in tutte le sfumature possibili ed inimmaginabili, Il corredo scolastico era ridotto al minimo ed ispirato al risparmio: un astuccio di pastelli a matita, assai ridotti nella quantità, a sei o dodici colori: i famosi “Pastelli Giotto”. Erano questi i miei primi strumenti di disegno, con i quali cominciavo ad accingermi nella grande avventura dell’Arte che mi aspettava negli anni a venire. Per i disegni scolastici si usavano gli Album da disegno Raffaello o Giotto, o Michelangelo, con le immagini dei famosi artisti sulle copertine con il fondo ad unico colore marrone o grigio scuro o azzurro. Oltre ai classici album, disegnavo su qualsiasi foglio di carta, mi capitasse tra le mani, retro di calendari, foglietti vari, carta paglia, di quella che serviva per incartare il pane o la pasta o il riso, che a quei tempi si compravano sciolti. Disegnavo dal vero quello che vedevo o che sognavo, i miei oggetti e le mie cose. In cucina avevamo un orologio a cuccù, di quelli dove l’uccellino esce dalla porticina a cinguettare le ore; ho ritrovato il disegno di quell’orologio che mi ha ricordato i tempi della mia fanciullezza. E ancora: l’orologio a pendolo che stava sul corridoio della porta di casa di Palestrina, i miei libri, il tampone con la carta assorbente, i paesaggi della campagna, le case e le chiesette. Mi piaceva poi raccontare le storie a fumetti, magari quelle di un film che avevo visto o di un libro di lettura.

Già all’età di 7 anni, mia madre, viste le mie tendenze artistiche, cominciò a comprami dei colori; ma non iniziò a comprarmi colori ad acquarello o a tempera, come succede per i bambini di quella età. Cominciò sin da subito ad acquistarmi colori ad olio; ricordo il giorno in cui mi portò sei tubetti di colore ad olio (ne conservo ancora alcuni esemplari), una boccetta di olio di lino ed una di trementina, e ad un paio di pennelli. Non potete immaginare per me quale festa feci a quella vista. Ma non avevo i supporti sui quali dipingere. Trovai in casa i cartoncini dei calendari dell’INA, che mio padre portava a casa all’inizio di ogni anno. Iniziai dal retro di questi cartoncini, da solo, senza avere un minimo di conoscenza dell’uso dell’olio. Unico suggerimento di mia madre fu: “inizia dall’alto, dal cielo, e poi scendi man mano in basso. I colori lontani sono più chiari, quelli in primo piano sono più scuri”. Queste furono le mie prime nozioni base; poi intervenne la conoscenza diretta dei materiali e i primi veri insegnamenti di mio zio Mario, come spiegherò in altro capitolo.

Lo sviluppo dell’edilizia a Roma dalla seconda metà degli anni cinquanta agli anni sessanta

Erano gli anni cinquanta-sessanta, il periodo della ricostruzione e del successivo periodo cosiddetto del boom economico, il periodo delle palazzine che, subito dopo il primo dopoguerra, continuavano a crescere come funghi nelle periferie sconfinate di Roma. Ma per gli italiani usciti dalla guerra, erano costruzioni finalmente dotate dei servizi essenziali, quali il bagno, il riscaldamento, le fogne, con l’acqua diretta e con i locali delle fontane per lavare le lenzuola e dei cosiddetti “cassoni” che consentivano di avere acqua sempre a portata di mano, anche durante i razionamenti. L’acqua diretta infatti era ancora razionata e in certe ore del giorno veniva a mancare. In pratica c’era un doppio impianto: quello dell’acqua potabile e quello dell’acqua non potabile che scendeva dalle riserve dei cassoni. Successivamente questo periodo sarà definito dagli storici urbanisti, il periodo dei palazzinari; così, in dialetto romanesco, erano indicati dispregiativamente gli imprenditori edili o del settore immobiliare, arricchitisi grazie alla speculazione edilizia, che avevano distrutto le campagne romane e dato il via a quelle sconfinate periferie che ancora oggi caratterizzano la cinta edilizia di Roma, senza un disegno organico di città. Ma a quel tempo per gli italiani il sogno era andare a vivere in città, come cantava Adriano Celentano nel 1966 nella sua canzone “Il ragazzo della via Gluck”. La palazzina romana diventa la tipologia della città in espansione, in grado di ricoprire senza soluzione di continuità vaste distese del territorio urbanizzato di Roma. Occorreva creare modelli insediativi edilizi capaci di essere facilmente imitabili e ripetibili, per far fronte alle necessità degli alloggi e creare un modello popolare apprezzato dalla media borghesia. Il tipo edilizio era costituito da un piano terreno sopraelevato che permettesse l’illuminazione dei locali seminterrati, in conformità al regolamento edilizio del 1934; tre piani in elevazione suddivisi in due, tre, massimo quattro alloggi; l’attico sul terrazzo, con possibilità di trasformare il piano di copertura, destinato a servizi, a superattico, molto spesso abusivo e ambìto, con vista panoramica sui tetti della città, in mezzo alla selva di antenne per la tv che cominciavano a proliferare. Ogni appartamento veniva suddiviso in due parti: zona giorno, con un ingresso, il salotto per ricevere i parenti, la camera da pranzo per i pranzi domenicali e una cucina abitabile dove in genere si organizzava la vita quotidiana familiare: cucinare, mangiare, fare i compiti, stirare e altre attività giornaliere, e una zona notte con servizi e una o due camere da letto. Le abitazioni signorili disponevano anche di una cameretta per la “donna di servizio” (così veniva chiamata la collaboratrice domestica), con un doppio ingresso di servizio, che disimpegnava la cucina e i servizi. Spesso il salotto veniva usato anche per far dormire uno o due figli tramite un divano letto o un letto a scomparsa nel mobile. Molto spesso al centro delle palazzine c’erano cortili o chiostrine per dar luce ai servizi e alle cucine. Elementi caratteristici di rifinitura erano le pensiline di ingresso, il corpo scala, i balconi e soprattutto la facciata, elemento autonomo sul quale si potevano sbizzarrire i progettisti. I particolari e i dettagli, il tipo di infissi, balconi, paramenti murari e rivestimenti a cortina determinavano il costo più o meno alto delle abitazioni e la tipologia più o meno signorile. Gli architetti di sinistra cercavano di progettare una edilizia più impegnata, ma il più delle volte la tipologia era sempre quella della palazzina; i progettisti si concentravano per creare belle soluzioni estetiche delle facciate. Nasce così la palazzina “impegnata”, tra la metà degli anni cinquanta e gli anni sessanta, quella cioè più studiata e valida sotto il profilo architettonico delle facciate. Tutti i più importanti architetti e urbanisti dell’epoca si cimentarono con il tema delle migliori soluzioni architettoniche: così ritroviamo gradevoli palazzine realizzate in zona Eur, ai Parioli, Vigna Clara, Montemario, e altri quartieri di Roma, dai grandi nomi degli architetti operanti a Roma, quali Mario Fiorentino, (Roma 1918- 1982), architetto e urbanista italiano,  noto soprattutto per il controverso progetto del "Corviale", un edificio di edilizia residenziale popolare costruito a Roma negli anni settanta e le case a torre in Piazza Addis Abeba del 1962, Ludovico Quaroni (Roma, 1911-1987), Carlo Aymonino (Roma, 1926-2010), Ugo Luccichenti (Isola Liri 1899-Roma 1976), Mario Ridolfi (Roma, 1904–Terni, 1984), Luigi Pellegrin (Courcelette 1925-Roma 2001) architetto e professore universitario alla Sapienza di Roma, con il quale avevo seguito il corso di arredamento durante il mio periodo universitario, la Cooperativa degli architetti di Reggio Emilia (E. Barbieri, S. Gasperini, A. Ligabue, A. Pastorini, O. Piacentini, A. Rossi, E. Salvarani, F. Valli), F. Gorio, E. Montuori, A. Libera, Giò Ponti, L. Callini, I. Pederse, L. Rubino, Paolo Portoghesi (Roma 1921- Calcata 2023) con la casa Baldi al Labaro del 1959, Domenico De Riso con la palazzina di viale Tiziano del 1962, Luigi Moretti (Roma 1906 – Capraia Isola 1973) con la bellissima palazzina in via R. Rossi 35 del 1962-1965, e altri. Oppure nelle opere pubbliche, quali l’autorimessa di via Magna Grecia di Riccardo Morandi del 1956, il centro commerciale di piazza S. Jacini del 1955, la sede centrale della Democrazia Cristiana in piazza L. Sturzo di Saverio Muratori del 1955 l’aerostazione dell’aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino, di A. Luccichenti, V. Monaco, R. Morandi, A Zavitteri, il Palazzo degli uffici dell’ENI al laghetto dell’EUR di Marco Bacigalupo del 1960/62, il quartiere INCIS a Decima dli L. Moretti del 1960/62, la Direzione generale della RAI in viale Mazzini, da F. Berarducci e A. Fioroni nel 1961-1965, il Centro Idrico della Cecchina in via della Bufalotta di F. Palpacell del 1959-1964 (sulla stessa tipologia verrà realizzato il centro idrico a Vigna Murata intorno agli anni ottanta), oltre alle opere per i Giochi Olimpici del 1960 a Roma, di cui parlerò a parte. L’attenzione degli architetti fu dunque rivolta alla cura del materiale, alle finiture, all’approfondimento tipologico dell’abitazione. Sul piano culturale la ricerca architettonica applicata alla palazzina determinò la crisi dello storico riferimento al movimento moderno europeo e al razionalismo in particolare. Ne risultò al contrario una acritica diffusione della maniera moderna frantumata nei più minuti particolari tipologici. L’inquieto zigzagare delle facciate ed in particolare del prospetto principale che si allinea sulla strada di accesso, l’impianto strutturale spesso anonimo, le ardite pensiline d’ingresso, la sequenza dei balconi aggettanti: non un nuovo linguaggio bensì il moderno ridotto a particolare architettonico funzionale ad un processo di rapida diffusione. La facciata libero piano geometrico permetteva di movimentare le masse, di proiettare gli ambienti interni verso l’esterno e di alludere ad un rapporto con la natura circostante, nei fatti inesistente  . (N.B.: il Movimento Moderno nella storia dell'architettura periodo collocato tra le due guerre mondiali, teso al rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principi dell'architettura, dell'urbanistica e del design. Ne furono protagonisti quegli architetti che improntarono i loro progetti a criteri di funzionalità ed a nuovi concetti estetici. Tra i più importanti movimenti della storia dell'architettura, che ha influenzato più o meno direttamente tutta l'architettura e l'urbanistica del XX secolo, vengono ricordati come Maestri del Movimento Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto, Adolf Loos, Giovanni Michelucci, Gio Ponti, Gualtiero Galmanini, Franco Albini), aveva messo a disposizione un patrimonio illimitato di forme, soluzioni, particolari architettonici).

 Nel 1953, solo 8 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, furono progettati nuovi tipi di edifici per eliminare la grave carenza di alloggi del dopoguerra anche fuori dell’Italia. Nel 1953 l'architetto Le Corbusier costruì a Berlino un palazzo, vedi foto, contenente ben 530 appartamenti. L'edificio è costruito in béton brut (cemento grezzo) e fa parte dello stile architettonico iniziale che oggi conosciamo come Brutalismo. Guadagnando popolarità negli anni '50, il brutalismo è caratterizzato da costruzioni lineari, rigorose, minimaliste e lineari che mettono in mostra i materiali da costruzione nudi, il cemento e gli elementi strutturali, piuttosto che il design decorativo. Gli architetti romani, pur attingendo da esso tutti gli aspetti positivi della rivoluzione architettonica del movimento moderno, avevano rielaborato le soluzioni architettoniche con le idee del Movimento postmoderno, arricchendo in tal modo spesso efficace le loro esperienze più impegnate. I Parioli, il quartiere più ricco di Roma, era caratterizzato fino agli anni ’40 di un ambiente confortevole: strade tranquille su cui si affacciavano giardini, case signorili, ville. Ma fra gli anni del dopoguerra e gli anni ’50, viene sommerso dalla ondata di palazzine. Grazie ai forti dislivelli della orografia del terreno gli edifici riuscirono ad arrivare a sette otto piani, in barba al Regolamento edilizio. Le strade sono strette per guadagnare terreno, i parcheggi limitati; per la sete di un facile guadagno a favore dei piccoli impresari edilizi i Parioli persero il loro carattere di tranquillo quartiere. Nel 1955-1961 inizia la progettazione dell’Istituto di farmacologia ad opera degli architetti Dall’Oglio e Lambertucci, all’interno della Città Universitaria, che era stata realizzata durante gli anni trenta, nel pieno del ventennio fascista, da una serie di architetti razionalisti sotto la supervisione del più tradizionale architetto Marcello PiacentiniNel 1958 viene progettato il quartiere unitario di Casalpalocco da Libera, Luccichetti, Paniconi, Pediconi e Vaccaro, realizzato tra il 1961 e il 1975 dalla Società Generale Immobiliare, con carattere estensivo, con case basse, servizi residenziali e una notevole estensione di verde. La convenzione per la realizzazione del quartiere fu stipulata prima dell’entrata in vigore del nuovo piano regolatore. Nota: Per lo sviluppo edilizio a Roma degli anni cinquanta, si veda Piero Ostilio ROSSI, Roma guida all’architettura moderna 1909-2011, Ed. Laterza, 2012, ISBN 9788842099178). 

Il Nuovo Piano Regolatore di Roma, redatto dagli architetti Fiorentino, Piccinato ed altri, arrivava nel 1961, adottato il 18 dicembre 1962, approvato nel 1965, con la varante generale adottata il 17 ottobre del 1967, andata in vigore nel 1971. Era il nuovo piano regolatore di Roma, dopo i precedenti piani ormai superati:

1873: primo PRG, rimasto sulla carta;

1881: legge n. 209 del 14 maggio 1881, che stanzia finanziamenti per il concorso dello stato alle spese per realizzare a Roma i servizi adeguati a una capitale;
1883: PRG di Alessandro Viviani a modifica e integrazione del precedente;
1909: il 10 febbraio il Consiglio comunale approva il nuovo piano regolatore di Edmondo Sanjust di Teulada;

1931: PRG di Piacentini, Giovannoni e altri su incarico del Governatorato di Roma;

legge 24 marzo 1932, n. 355, che finanzia il PRG del ’31.

Nota: per i PRG di Roma si veda la dispensa della facoltà di Architettura a cura della Prof. Lucina Caravaggi facoltà architettura, dispensa 5, i piani di Roma)

 Gli eventi storici del boom economico  

Intanto a Roma, come anche in tutta Italia, iniziano gli anni del Boom economico. Inserita in questo processo di espansione economica mondiale, l'Italia alla fine degli anni '50 iniziò a crescere in maniera vertiginosa: tra il 1958 e il 1963 il prodotto interno lordo italiano si attestò su un incremento maggiore al 6% annuo, inferiore solamente a quello tedesco, Grazie al Piano Marshall (1951), si erano poste le basi di una crescita economica spettacolare, il cui culmine si raggiunge nel 1960, ma destinata a durare sino alla fine degli anni sessanta e a trasformare il Belpaese da paese sottosviluppato dall’economia agricola, ad una potenza economica mondiale. Valori tali da ricevere il plauso dello stesso presidente statunitense John F. Kennedy in un suo viaggio dal 23 giugno al 2 luglio del 1963 in Italia, a Roma e a Napoli, accolto dagli italiani con un entusiasmo sopra ogni immaginazione. Anzi, per non immaginarlo solamente, invito a vedere la ripresa in diretta del suo viaggio a Napoli, il giorno della partenza per gli Stati uniti, quando percorse tutte le strade di Napoli fino all’aeroporto, accompagnato da uno straordinario bagno di folla, sulla Berlina insieme al nostro Presidente italiano Mario Segni (Film documentario Kennedy Night Movies trasmesso da Rai 3 TGR Lazio nel 2023), di cui pubblico lo scatto inedito di una mia foto. Dalle foto e dal filmato si vede come gli Italiani vivevano un momento di sfrenata gioia, di spensieratezza, di felicità generale di fronte alle riprese della RAI e di riconoscenza verso gli Stati Uniti d’America. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell'industria dell'acciaio furono gli altri fattori decisivi. La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana e la realizzazione di una moderna industria siderurgica sotto l'egida dell'IRI permisero di fornire alla rinata industria italiana acciaio a prezzi sempre più bassi.

Il 4 ottobre del 1964 si inaugura l’autostrada del Sole, da Milano a Napoli. Trascorrono solamente otto anni dalla posa della prima pietra, il 19 maggio 1956 a San Donato Milanese con il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, si inaugurano tutti i 764 chilometri tra Milano e Napoli, con la presenza del Presidente del Consiglio Aldo Moro. Un vero miracolo italiano, quando oggi per costruire 40 km di strada ci si impiega non meno di venti anni!   Questo miracolo economico italiano, conosciuto anche come boom economico, identifica questo periodo della storia d'Italia compreso tra i primi anni '50 e i primi anni '60 , appartenente dunque al secondo dopoguerra italiano, ovvero ai primi decenni della Prima Repubblica, caratterizzato da una forte crescita economica e da un rapido sviluppo tecnologico dopo l'iniziale fase di ricostruzione post-bellica.  Gli italiani cominciano a conoscere gli acquisti fatti a rate e con le cambiali; cominciano a vedersi nelle case i primi frigoriferi e televisori, iniziano le prime vacanze fuori porta per gli italiani. I miei programmarono le vacanze prendendo in affitto una casa ad Ostia. Era il 1960; ricordo il giorno in cui dovevamo partire per le vacanze estive ad Ostia; la mattina dovevano consegnarci il nuovo frigorifero, ed aspettavamo il suo arrivo con impazienza, prima di partire per la vacanza. Era una bellissima mattina di metà giugno (almeno così ricordo), piena di sole e cielo terso e limpido come nelle belle giornate primaverili romane. In Italia i frigoriferi erano cominciati ad entrare nelle case domestiche negli anni ’50, grazie all’imprenditore Giovanni Borghi, proprietario della Ignis che lo definisce “l’amico di famiglia”. Il frigorifero diventa un’icona del Boom Economico italiano, insieme alla Vespa. La vespa era un modello di scooter della Piaggio, brevettato il 23 aprile del 1946, su progetto dell'ingegnere aeronautico Corradino D'Ascanio. Si trattava di uno dei prodotti di disegno industriale più famosi al mondo, molto utilizzato come simbolo del design italiano. La Vespa è stata esposta nei musei di design, arte moderna, scienza & tecnica e trasporti di tutto il mondo.

Un’altra nuova macchina entrata nell’uso comune degli italiani era stata quella da scrivere della Olivetti. La storia della dattilografia italiana è legata soprattutto alla Olivetti, nata a Ivrea nell’ottobre del 1908, in un periodo in cui la macchina per scrivere era ancora considerata, da molti italiani, un lusso o una curiosità. Nel 1911 era stato presentato il primo modello della M1 all’Esposizione Universale di Torino. Sul catalogo dell’Esposizione, la Olivetti fu presentata come “prima e unica fabbrica italiana di macchine per scrivere”.

Il 29 gennaio del 1951 ci fu la prima trasmissione via radio del festival della canzone italiana (il Festival di San Remo) e si svolse nel salone delle feste del Casinò, condotto da Nunzio Filogamo, noto per il suo saluto radiofonico agli "amici vicini e lontani". Alla prima edizione prese parte un nome noto e famoso nella storia della canzone italiana: Nilla Pizzi, che vinse con la canzone Grazie dei fior. La prima edizione non ebbe molto successo tra la critica e il pubblico. La seconda edizione del Festival di Sanremo trovò un maggiore riscontro dagli autori e dagli editori musicali. A vincere, come l'anno prima, fu Nilla Pizzi con la «serenata popolareggiante» Vola colomba, che si aggiudicò anche il resto del podio con Papaveri e papere e Una donna prega, risultato mai più ripetuto nella storia del Festival.

Dopo la guerra si diffondono in Italia una serie di scoperte del primo decennio del novecento, molte delle quali nate per esigenze militari, quali il PVC e il cellophane, la Fòrmica con il suo boom negli anni cinquanta, usata per produrre laminati per l’arredamento e stampare piatti e posate economici, ma la più grande novità è la plastica. Nel 1954 l’ingegnere chimico italiano Giulio Natta aveva scoperto il polipropilene; grazie a questa invenzione vinse nel 1963 il Premio Nobel. Il polipropilene diventerà uno dei simboli del “boom economico”, prodotto industrialmente dal 1957 con il marchio “Moplen”. Chi, tra i più anziani di noi, non ricorda la pubblicità su Carosello, dove Gino Bramieri era il testimonial del lancio sul mercato di questo materiale? Gino Bramirei, con la sua mole fisica, alla domanda “e mò?”, risponde “E mò? Moplen!”, saltando sulla bacinella di plastica senza romperla e lanciandola per terra, e un coro fuori campo cantava “E’ leggero, resistente, è leggero e resistente e inconfondibile e mò? e mò e mò? e mò e mò e mò? Moplen!!”. Con la plastica nasceva un sogno!!

Dagli anni ’60 in poi la plastica si affermerà come materiale legato alla vita di tutti i giorni e le sue potenzialità vengono esplorate nel campo della moda, del design e dell’arte. Ma iniziava un’epoca che porterà anche grandi disastri ecologici per l’uso indiscriminato dei suoi rifiuti. La grande crescita tecnologica e le sue applicazioni sempre più sofisticate, grazie allo sviluppo dei cosiddetti “tecnopolimeri”, portano l’industria della plastica a evolversi sempre più. Oggi la sfida più importante è quella di unire l’innovazione della lavorazione della plastica all’attenzione per il riuso e il riciclo della stessa.  

IL 3 gennaio 1954 la RAI iniziava la trasmissione dei programmi televisivi, in bianco e

CAPITOLO 3: La gioventù e la prima formazione, dal 1965 AL 1975
Il periodo del liceo

Nell’ottobre del 1965 mi iscrivo al Liceo Scientifico Cavour di Roma, anno scolastico 1965/66.

La scelta del liceo non era stata facile. Io, per passione naturale, avrei voluto iscrivermi al liceo artistico, ma mia madre mi dissuase per una mentalità allora ricorrente basata su stereotipi del tipo “all’artistico circola la droga” o “all’artistico non si fa niente, si disegna e basta” e poi “con l’artistico non si può fare nessun lavoro”.

D’altronde non sono stato il primo ad affrontare questo tipo di scelta: la storia dell’arte è piena di storie di controversie tra genitori e figli, a partire da Michelangelo fino ai nostri giorni. Tra i tanti artisti si ricorda anche il grande Edouard Manet (Parigi 1832-1883) che rifiutò di studiare Legge come suo padre. Il suo scarso rendimento scolastico e la mancata ammissione all’Accademia Navale, per ben due volte, indussero il padre a cedere alle ostinazioni del figlio di voler diventare un pittore. La stessa cosa successe per Edgar Degas, che era stato ostacolato dal padre, il quale voleva che il figlio studiasse Legge, come lui. Sia Manet che Degas ebbero la meglio. Io, al contrario di Manet e di Degas, mi lasciai convincere dai miei genitori, iscrivendomi al liceo Scientifico, lasciando dentro di me il sogno irrealizzato di studiare in un liceo artistico. Allora pensai che per diventare un bravo artista occorresse dedicare tutta la vita a disegnare e dipingere; “disegnate, disegnate molto, disegnate linee dal vero e a memoria, e diventerete un bravo artista….gli antichi vedevano tutto e rappresentavano tutto” ripeteva il grande classicista Dominique Ingres nell’ottocento (rif. Artisti rivali di Sebastian Smee, 2016, edizioni UTET). Per questo fui fortunato perché anche al liceo scientifico il disegno e la storia dell’arte era una materia di una certa importanza; venne approfondita anche grazie alla mia professoressa di disegno, la Leonardi, che ci insegnava e ci faceva esaminare in profondità lo studio dei grandi maestri e gli stili architettonici e pittorici delle varie epoche storiche. A scuola e a casa disegnavo molto, anche dal vero. Disegnare molto significa anche togliere lo spazio e rinunciare ad altre attività; Degas ripeteva: “le cose più belle nell’arte sono frutto di una rinuncia” (rif. Artisti rivali di Sebastian Smee, 2016, edizioni UTET). Anche Michelangelo era della stessa opinione, e considerava il matrimonio un ostacolo alla creatività. In un dialogo pubblicato da Donato Giannotti, intellettuale fiorentino del cinquecento, si ricavano informazioni preziose su Michelangelo; in questo dialogo Michelangelo si dice “incapace di abbandonarsi alla sensualità degli affetti e delle passioni, perché lo distolgono dalla creatività e dal lavoro, che fiorisce soltanto in condizioni di cupa concentrazione e di rimozione di ogni altro bisogno vitale. La grandezza dell’arte nasce per sua stessa ammissione dalla rinuncia alla felicità della vita, come se le due sfere fossero in netta contrapposizione” (Antonio Forcellino: Michelangelo, una vita inquieta, ed. Laterza 2010). Per Michelangelo la vita è nemica dell’arte e l’arte è nemica della vita. Da una poesia di Michelangelo si evince la disperazione con la quale l’artista si aggrappa al pensiero della morte per non soccombere alla perdita dell’amore (Michelangelo Buonarroti, Rime, 127):

Non pur la morte, ma ’l timor di quella
da donna iniqua e bella,
c’ognor m’ancide, mi difende e scampa;
e se talor m’avvampa
più che l’usato il foco in ch’io son corso,

non trovo altro soccorso
che l’immagin sua ferma in mezzo il core:
ché dove è morte non s’appressa Amore
.